Ermeneutiche sinestetiche: corpo sensibile e decostruzione della croce nella e oltre la metaestetica di Jean-Luc Nancy
DOI:
https://doi.org/10.15162/1827-5133/1925Parole chiave:
Jean-Luc Nancy, rappresentazione, pittura, decostruzione del cristianesimo, representation, painting, deconstruction of ChristianityAbstract
L’interesse di Jean-Luc Nancy per la pittura è intrinseco rispetto alla sua “decostruzione” filosofica del cristianesimo, per questo, “rappresentare l’assenza della presenza”, mostrare l’ineffabile, è una delle sfide della rappresentazione che chiama in causa non soltanto, nel contatto con l’opera, una relazione d’“intima intensità”, tra chi produce arte e chi ne fruisce attraverso sinestesie sensibili e ultrasensibili, ma che soprattutto invita al trascendimento dei suoi significati letterali. Come accade al teologo ebreo Martin Buber, la cui interpretazione del maestoso polittico d’Issenheim di Mathias Grünewald come “l’altare dello spirito in Occidente”, Nancy condivide e rilancia attraverso uno slancio metaestetico che lo conduce a un “intimo rapportarsi con l’opera” come quello esperito dal raffinato teorico del “vedere”, John Berger, nella sua ri-visitazione dell’Altare di Colmar e in particolare della Crocifissione d’apertura. Questa diviene l’occasione per attraversare, con Weil e con Nancy, le irriducibili “paradossie” e le innumerevoli “trasfigurazioni” artistiche (da Mastro Guglielmo a Francis Bacon e Bill Viola) di quel peculiare manufatto, ideato come strumento di supplizio e poi sublimato in segno, emblema, simbolo universale, per giungere a un possibile epilogo che chiama in causa la “struzione” della croce.
Jean-Luc Nancy’s interest in painting is intrinsic to his philosophical “deconstruction” of Christianity, which is why “representing the absence of presence”, showing the ineffable, is one of the challenges of representation that not only calls into question, in contact with the artwork, a relationship of “intimate intensity” between the producer of art and the viewer through sensitive and ultra-sensitive synaesthesia, but above all invites the transcendence of its literal meanings. As happens to the Jewish theologian Martin Buber, whose interpretation of Mathias Grünewald’s majestic Issenheim polyptych as “the altar of the spirit in the West”, Nancy shares and relaunches through a meta-aesthetic impetus that leads him to an “intimate rapport with the artwork” such as that experienced by the refined theorist of “seeing”, John Berger, in his re-visitation of the Colmar Altar and in particular the opening Crucifixion. This becomes the occasion to go through, with Weil and with Nancy, the irreducible “paradoxes” and the innumerable artistic “transfigurations” (from Maestro Guglielmo to Francis Bacon and Bill Viola) of that peculiar artefact, conceived as an instrument of torture and then sublimated into a sign, emblem, universal symbol, to reach a possible epilogue that calls into question the “struction” of the cross.
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